Giugno è sempre stato il mio mese
preferito, non chiedetemi perchè. A Giugno può succedere tutto. Ed
era Giugno. Ed era quel treno. Il mio treno. Il treno che preferisco.
Parto di prima mattina e giungo che la serata è al termine; diretto,
l'unico diretto tra le due cittadine assai distanti; molte fermate,
molte ore, nessun cambio.
Giornate dense su quegli scomodi
sedili.
Potresti prendere l'auto. In due ore
sei già all'aereoporto, e in un altro paio d'ore arrivi direttamente
là. Ancora non capisco perchè ti ostini a voler perdere tutto
questo tempo, e a viaggiare così scomodo. Magari tu risparmiassi,
no, neanche quello.
Mia madre non capirà mai il mio
rapporto col treno. Ho sempre creduto che si ostinasse a non voler
capire, adesso ho cabiato idea. Radicalmente. È più probabile che
sia io, a non sapere trasmettere la mia idea, a non saper aprirmi
verso gli altri, per coglierne i loro, di messaggi. Sono io, quello
barricato in me stesso, nelle mie idee e nei miei pregiudizi.
Me lo ha detto quel treno, nella notte
di Giugno.
Io, così bravo a scrivere, e parlare,
e far parlare i miei personaggi, e inventare storie, e immedesimarmi
in uomini invisibili, e capire sentimenti di donne mai nate, io, che
creo mondi parallelei, con lo stesso realismo delle mie impronte
sulla soglia nei piovosi giorni autunnali, io, che non colgo i suoni
della mia vita. Percepisco la melodia ma, senza saperlo, mai avevo
udito le singole note.
Avevo chiesto a mio fratello di
accompagnarmi fino alla stazione; pochi giorni sarei rimasto, ma
avevo con me molti bagagli. I bagliori dell'alba di Giugno sono
splendidi, e frizzante l'aria sebbene si annunci già il calore, il
profumo della rugiada sornione aleggia.
Ci concedemmo un caffè al bar quasi
vuoto, i pendolari non erano arrivati.
"Allora?"
"Allora cosa?"
Si strinse nelle spalle e non rispose.
Il fatto è che io e mio fratello sia molto legati, ma, quanto a
parlare, è proprio un altro discorso. La mia vita era un maledetto
guazzabuglio, arenato come da giovane, nelle fotografie che non ero
capace di fare, ma con molti anni in più da sopportare.
"Quanto ti trattieni?"
"Poco, ancora di preciso non lo so, ma poco."
"Poco, ancora di preciso non lo so, ma poco."
Mi guardava, e dietro a quegli occhi,
gemelli dei miei, muto rimprovero colmo di fraterno amore. Io, con il
mio carico di inquietudini, di sbagli, di strade interrotte, di
ripensamenti, lui con le sue nette limpide definitive scelte. Aveva
vent'anni, disse qui, e lì vive ancora, disse questo, e tale rimane
il suo lavoro, disse lei, e sono ancora felicemnte sposati. Io...
"Perchè non ti stabilisci lassù
in maniera definitiva?"
Effettivamente sarebbe stata la
soluzione migliore per il mio lavoro, però...
"Te andresti mai via da qua?"
E lui alzò il sopracciglio, assumendo
quella vecchia espressione che, da ragazzo, aveva fatto strage di
cuori.
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