Quella sera dovevamo festeggiare, non l'avevamo deciso, era implicito. Passo a prenderti alle nove, le
dissi soltanto.
Alle nove ero già là, e lei per una
volta non mi fece attendere, scese le scale di corsa, era bellissima,
nel vestito nero e con i tachi alti. Si era truccata poco, proprio
come piace a me, ma profumava intensamente, fiore di bosco o qualcosa
di simile.
Mi buttò le braccia al collo.
Festeggiamo?
Certo.
Dove mi porti?
È una sorpresa.
Inizia a guidare per fuori città, le
strade ancora piene del rientro serale.
L'eccitazione le si leggeva in volto,
trattenerla era impossibile. Mi parlò della sua amica, del vestito
nuovo e di quello che avevo visto in vetrina, del gatto del vicino,
dei film al cinema e di quelli in TV e di tutte quelle altre cose di
cui parlano le donne se lasciate senza freno.
Quella sera non la bloccai, ma
l'ascoltai anche abbastanza interessato.
Mi chiamò il mio capo e lei non
sbuffò. Attese paziente giocherellando con gli orecchini luminosi.
Approfittando del suo buonumore le parlai della partita a calcetto
con gli amici, della cena di lavoro, del figlio di mio cugino. Per
una volta almeno, mi stette a sentire.
Presi l'uscita a nord, adesso il
traffico si era fatto più scorrevole, accelerai.
Lei accese la radio e si mise a
canticchiare un pezzo degli Europe. Non sapeva l'inglese ed era
stonata. Era bello ugualmente, però.
Alzai il volume e imboccai una curva.
Poi il vuoto, il nero. Da allora non so
più niente.
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